L’Ego: «Un impostore che fa finta di essere voi» (Eckhart Tolle)

Avete presente quell’incessante flusso di pensieri nella testa, involontari, automatici e ripetitivi? Quella voce che non smette mai di parlare? La maggior parte di noi è completamente identificata con quella voce nella testa e con le emozioni che ne scaturiscono e, finché vi è inconsapevolezza, crediamo di essere colui che sta pensando.

Il pensiero, in realtà, è fortemente condizionato dal passato: dall’educazione ricevuta, dalla cultura, dal contesto familiare e sociale di origine, dalle nostre interpretazioni, reazioni ed emozioni e via dicendo. E quindi, con molta probabilità, quel flusso di pensieri ed emozioni non ha niente a che vedere con chi siamo veramente.

Tutta questa attività mentale ed emozionale, unitamente alla nostra storia personale (le nostre memorie del passato), ai ruoli che abitualmente interpretiamo senza esserne pienamente consapevoli e alle identificazioni collettive (nazionalità, religione, classe sociale, razza e fede politica), costituiscono il nucleo dell’ego.

Fondamentalmente, il meccanismo attraverso il quale l’ego si manifesta e si rafforza è l’identificazione. Il contenuto, invece, può variare. L’ego, infatti, può identificarsi con le forme fisiche (cose materiali, corpo), con le forme di pensiero, con le forme emozionali. Non è importante con cosa si identifica, all’ego interessa solo avere un’identità, che noi, inconsapevolmente, crediamo essere la nostra personalità.

«Le condizioni oggettive sono sempre neutre.

È la tua reazione a esse che le rende tristi o felici.»

Paramhansa Yogananda

Avere o essere?

L’identificazione col mondo materiale (case, vestiti, mobili, oggetti vari, ecc.) varia da persona a persona, in base all’età, al sesso, al reddito e così via.

Senza voler minimamente disprezzare il mondo delle cose, vogliamo piuttosto porre l’attenzione sull’aspetto disfunzionale di questa caratteristica dell’ego, che si manifesta quando le usiamo per trovare il nostro vero «Io», per sentirci pienamente noi stessi. Se, infatti, in qualche modo non ci sentiamo “ok” in relazione al mondo esterno, sarà molto probabile che riempiremo la nostra quotidianità di cose, attribuendo valore al nostro essere in funzione di ciò che possediamo. Questo genera un’eccessiva preoccupazione per le cose, che sottintende un attaccamento ad esse, ovvero l’identificazione.

Il motivo per cui ciò accade è che per l’ego vale l’equazione “avere = essere”, per cui “io ho, dunque sono” e “più ho, più sono”. L’ego, inoltre, si nutre del paragone, ovvero il modo in cui ci vedono gli altri diventa il modo in cui vediamo noi stessi e, perciò, l’ego si sentirà tanto più importante quanto più importanti appariremo agli occhi degli altri.

Tuttavia, poiché il meccanismo di trovare noi stessi attraverso ciò che possediamo non funziona (peraltro, è proprio tale meccanismo ad alimentare la “società dei consumi”), l’ego vivrà costantemente un’insoddisfazione profonda e radicata, un senso di “non abbastanza” che lo spingerà ad avere sempre di più, a ricercare sempre più cose con cui identificarsi.

Possiamo portare consapevolezza ai nostri attaccamenti. Ad esempio, possiamo osservare come ci sentiamo e cosa proviamo nel momento in cui perdiamo una determinata cosa oppure anche solo immaginiamo di perderla (ansia, turbamento, disagio, noia, insoddisfazione o altro). È sufficiente diventare consapevoli di essere identificati con una cosa, perché accada che quell’identificazione non è più totale, perde forza e sostanza.

Ruoli e strategie di sopravvivenza

L’ego ci tiene alla sua sopravvivenza e cerca, quindi, non solo di proteggersi, ma soprattutto di diventare più potente. Per farlo ha bisogno degli altri. In che modo? Per esempio, attraverso il racket emozionale (lamentela, pretesa, accusa) e il giudizio. In poche parole, quando l’ego si lamenta di una persona o di una situazione, lancia delle accuse o giudica, si sta dando ragione e l’ego ama dare torto per avere ragione. In questo modo, infatti, si sente superiore e può rinforzare il senso di sé.

All’interno di queste dinamiche, a seconda delle situazioni, l’ego può assumere il ruolo di vittima o carnefice e, in entrambi i casi, il fine ultimo è sempre quello di rafforzarsi guadagnando l’attenzione degli altri. In realtà, ogni ego, pur avendo un ruolo predominante, può passare da uno all’altro a seconda del contesto in cui si trova (lavoro, famiglia, partner, ecc.). Oltre al ruolo di vittima e di carnefice, l’ego ne interpreta anche altri, che possiamo riconoscere nei vari modi di parlare e di agire, a seconda della persona con cui stiamo interagendo (il nostro capo, nostro figlio, il medico, il cameriere e così via). Infatti, nella relazione con ciascun soggetto, entrano in azione diversi schemi condizionati di comportamento (superiorità, inferiorità, potere, compiacenza, ecc.), in virtù dei quali, la relazione avviene realmente tra l’immagine concettuale che la nostra mente ha creato di noi (chi pensiamo di essere) e l’immagine concettuale che ha creato dell’altro. Più siamo identificati nei diversi ruoli creati dall’ego e più le relazioni non sono autentiche.

L’ego non si nutre solo del racket e del giudizio, ma anche dell’emozione che ad essi si accompagna, ovvero il risentimento. Per esempio, ci indigniamo per il comportamento degli altri, ci offendiamo per ciò che ci dicono, ci sentiamo feriti per ciò che avrebbero che avrebbero o non avrebbero dovuto fare e così via.

Il segreto per andare oltre il nostro ego è non reagire all’ego degli altri. Quando non reagiamo, ovvero non prendiamo tutto sul personale, entriamo in contatto con la parte più profonda e più autentica di noi e da lì possiamo riconoscere nelle parole o nel comportamento dell’altro il suo ego. E l’effetto ancor più meraviglioso che possiamo ottenere, non reagendo all’ego, è quello di mettere anche l’altro nelle condizioni di poter esprimere la sua parte autentica. Citando sempre Eckhart Tolle, è «guardare oltre l’ego a quella parte sana che vi è in ogni essere umano, nell’essenza di lui o lei».

A noi la scelta: nemico o alleato?

L’ego non è né giusto né sbagliato, semplicemente è inconsapevole.

Quando impariamo ad osservare consapevolmente i nostri pensieri, diventiamo consapevoli anche del fatto che sono soltanto dei pensieri e che non rappresentano tutto ciò che siamo veramente e di cui siamo realmente capaci. A quel punto, poiché consapevolezza ed ego non possono coesistere, possiamo non definirlo più ego, ma solo un vecchio schema mentale condizionato, che a volte riappare e che, ogni volta che lo riconosciamo, si indebolisce sempre di più.

L’ego, quindi, non come aspetto da demonizzare, quanto invece, accolto amorevolmente, come strumento di auto osservazione e auto conoscenza.

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2 Commenti

  1. Alberto

    Commento molto bello ed utile. Sono qui seduto in un bar e ho appena finito di volantinare e continuavo a rimuginare sui miei pensieri. Leggere il tuo articolo è stato come respirare una boccata d’aria fresca. Grazie

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    • Pushpa

      Grazie Alberto, davvero lieta che l’articolo ti sia piaciuto e ti sia stato utile. Sento del sollievo nelle tue parole 🙏✨

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