Scoprire la forza nella fragilità: un viaggio tra emozioni, maschere e autenticità
“In questo momento mi sento vulnerabile e sono davvero grata per l’opportunità di condivisione con voi.” – Brené Brown
Ci sono momenti nella vita in cui sentiamo che qualcosa dentro si spezza, si incrina, si scopre. La prima reazione – spesso automatica – è quella di ricoprire quella fenditura con una corazza. Nascondere, minimizzare, reagire. Eppure, proprio lì, nel punto in cui ci sentiamo più esposti, può nascere qualcosa di profondamente autentico.
Scoprirlo è un viaggio, e per molti di noi comincia con un libro, una frase, una testimonianza. Per me, è accaduto leggendo Osare in grande di Brené Brown, ricercatrice e autrice che ha dedicato tutta la sua carriera a studiare il coraggio, la vergogna, la vulnerabilità e la connessione umana.
Una definizione scomoda e preziosa
Brené Brown definisce la vulnerabilità come “incertezza, rischio emotivo e atto di esporsi”. Non ha a che fare con la debolezza, come spesso si crede, ma con la scelta consapevole di mostrarsi per come si è, anche (e soprattutto) nei momenti in cui si vorrebbe fuggire.
È la base di ogni relazione significativa, di ogni atto di creatività, di ogni slancio autentico. Eppure è anche ciò che la nostra cultura tende a censurare. Siamo immersi in un sistema che ci educa fin da piccoli al “mai abbastanza”: mai abbastanza bravi, magri, intelligenti, capaci, adeguati. Viviamo con l’idea costante di dover dimostrare il nostro valore, e il risultato è che ci allontaniamo da noi stessi.
I falsi miti sulla vulnerabilità

Uno dei contributi più importanti del lavoro di Brené Brown è aver messo in luce le narrazioni distorte che ruotano attorno alla vulnerabilità. Eccone alcune:
- “Essere vulnerabili è un segno di debolezza.”
In realtà, ogni volta che sentiamo qualcosa – dalla gioia alla paura – stiamo vivendo una forma di vulnerabilità. Non possiamo anestetizzare selettivamente le emozioni: se blocchiamo la tristezza, blocchiamo anche la gratitudine. - “La vulnerabilità non fa per me.”
Nessuno è immune alla vulnerabilità. Appartiene alla condizione umana. Possiamo rifiutarla, ignorarla, combatterla, ma non possiamo evitarla. È lì, ogni volta che ci innamoriamo, chiediamo aiuto, intraprendiamo qualcosa di nuovo, affrontiamo un conflitto. - “Essere vulnerabili significa raccontare tutto a tutti.”
No. La vulnerabilità richiede confini e fiducia. È un atto reciproco, non un’esibizione. Esporsi in modo incondizionato con chi non è pronto ad accogliere può generare disconnessione, non intimità. - “Posso farcela da solo.”
La cultura del “self-made” ci fa credere che la forza stia nell’autosufficienza. Ma il coraggio di chiedere aiuto, di dire “ho bisogno”, è tra i più grandi atti di forza e umanità che possiamo compiere.
Vergogna e resilienza
La più grande nemica della vulnerabilità è la vergogna. Quella voce che ci sussurra: “Non sei abbastanza”. Quando la vergogna prende il sopravvento, indossiamo maschere, costruiamo armature, evitiamo il contatto reale.
Per diventare resilienti alla vergogna, Brené Brown ci invita a:
- Riconoscere quando siamo in preda alla vergogna, notare i segnali fisici ed emotivi.
- Analizzare criticamente le aspettative che ci mettono in crisi: sono autentiche o imposte?
- Cercare connessione, anche solo con una persona che possa ascoltarci senza giudizio.
- Parlare della vergogna, darle voce, trasformarla da segreto a consapevolezza condivisa.
Le nostre armature: protezione o prigione?
Spesso ci identifichiamo così tanto con le nostre maschere da dimenticare chi siamo senza di esse. Ma, come scrive Brown:
“Quando chiudi la porta alla vulnerabilità, chiudi anche la porta alle opportunità.”
Possiamo proteggerci… o possiamo vivere. L’autenticità ha un costo: quello dell’esposizione. Ma il prezzo del suo contrario è molto più alto.
Vulnerabilità e genitorialità
Un capitolo toccante del libro riguarda il ruolo della vulnerabilità nella genitorialità. Essere genitori in modo incondizionato significa insegnare ai figli a sentirsi degni così come sono, non quando raggiungono un certo risultato. Significa dare spazio alla loro unicità, sostenere il loro sentire, modellare con l’esempio un modo sano e compassionevole di abitare il mondo.
E, soprattutto, significa chiederci ogni giorno:
“Sono il tipo di adulto che vorrei che mio figlio diventasse?”

Una pratica quotidiana
Da qualche tempo, ho adottato un piccolo rituale: ogni volta che sento emergere la vulnerabilità, invece di combatterla, la nomino. Se posso, lo dico ad alta voce. E poi ringrazio.
Per il coraggio di esserci. Per la verità che sento. Per la possibilità di scegliere, ogni giorno, la connessione anziché la difesa.
Perché la vulnerabilità non è solo una ferita aperta, è anche la porta attraverso cui passano l’amore, la gioia, la creatività e l’intimità più profonda.
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